Si è meritato il Forum grazie a un talento innegabile anche se, tuttavia, rimane un artista di nicchia. Perché come tutte le cose coerenti e raffinate, richiede uno sforzo maggiore per essere compreso fino in fondo.
Se all’inizio l’equilibrio tra Oriente e Occidente poteva sembrare solo un giochino di marketing, ora è diventato un racconto pienamente metabolizzato e strutturato da un punto di vista concettuale, musicale ed estetico.
Sullo sfondo di un ghetto metropolitano illuminato dal giallo ocra del tramonto del Cairo, Mahmood appare come una creatura ibrida, fusione perfetta di due mondi, due culture, due anime dell’essere umano e uomo.

È il metrosessuale in pelliccia dei primi 2000 e, insieme, il maschio ipertrofico e sudato della periferia. È il capo della gang ma il suo durag è di strass e ondeggia al vento come lo strascico di una principessa.
Parla il dialetto egiziano ma ha gli occhi bistrati come un principe di Persia. Danza mimando sciabole e pistole, ma ondeggia il ventre circondato dai ballerini del suo harem.
È l’eco del canto del muezzin e subito dopo il pop dalle sfumature francesi.

E’ la forza e la determinazione del maschio alpha che incita la folla ma anche la vulnerabilità e la delicatezza di Andromeda.
Quel “Nilo nel Naviglio”, che nel 2019 mi sembrava un parallelismo azzardato e un po’ ingenuo, ora si rivela come una profetica dichiarazione di intenti. Mahmood ha raffinato così tanto questa sintesi da rendere il confine tra i due mondi impercettibile, tanto da sembrare, paradossalmente, inesistente, trasformando la sua duplice eredità culturale da potenziale limite a straordinario punto di forza creativo.



