Non mi sono mai appassionato ad Harry Potter (nemmeno mai visto un film) e questo incipit é necessario per collocare la mia posizione in questa storia. Che comunque non prenderó perché é un tema complesso, delicato e necessita una chiacchierata vis-a-vis per discuterne (e dato che non vengo invitato fuori da un sacco di tempo, ecco servita opportunità e tema per rompere il ghiaccio).
Come nelle storie migliori, c’era una volta una saga che ci aveva fatto credere che l’amore fosse la forza più potente del mondo. Poi, un tweet. O forse cento. E le nubi hanno coperto il cielo sopea al castello incantato.

Il caso J.K. Rowling è diventato il simbolo di un dilemma molto contemporaneo:
Si può continuare ad amare un’opera quando il suo autore delude profondamente i nostri valori?
Possiamo rileggere Harry Potter con lo stesso sguardo incantato dopo aver letto le posizioni dell’autrice sulla comunità trans? O quell’universo magico è stato per sempre contaminato dalla stessa persona che l’ha creato?
La verità è che la domanda sembra semplice, ma la risposta non lo è.
Separare l’arte dall’artista è un atto che richiede una flessibilità mentale ed emotiva molto sofisticata, soprattutto in un’epoca in cui l’identità pubblica dell’autore è sempre più visibile, presente e performativa fuori dal suo consueto raggio d’azione.
Una volta ci bastava il libro sul comodino. Oggi, nel pacchetto dell’esperienza, compriamo anche i retweet, le interviste, le posizioni politiche.
Il creatore è diventato parte integrante del prodotto. E quando l’autore si esprime, è difficile fare finta di niente, soprattutto se ciò che dice ferisce una parte del pubblico che aveva trovato rifugio proprio in quelle storie.

Ma allora, cosa facciamo? Smettiamo di leggere, ascoltare, guardare?
La POP culture è piena di casi simili: da Woody Allen a Roman Polanski nel cinema, i deliri di Kanye West e la violenza di Chris Brown nella musica, le polemiche reazionarie di Bret Easton Ellis nella letteratura o le scelte eticamente discutibili nelle campagne pubblicitarie di Denma nella moda.

Eppure, ci sono opere che diventano più grandi dei loro autori.
Che superano chi le ha create, che si staccano e vivono di vita propria e sono diventate creature che imparano a camminare da sé. Alcuni fan di Harry Potter hanno deciso di fare proprio questo: hanno preso quel mondo e lo hanno reso altro, più inclusivo, più giusto, più umano. Hanno detto: “Quel libro è anche nostro, e ne facciamo quello che vogliamo”. E anche questa una forma di resistenza affettiva e creativa verso qualcosa che ha avuto, per noi, un significato profondo.

Ma ogni volta che leggiamo “Hogwarts”, non possiamo fare Oblivion. L’arte e l’artista sono connessi in modo spesso indelebile, soprattutto quando l’opera è intrisa di una visione del mondo. E quando quella visione del mondo vacilla, tutto traballa.
Onestamente, oggi continuerei a riguardare le repliche di Genitori in Blue Jeans volentieri, sognando ancora di essere un teenager popolare come Mike Seaver, anche se Kirk Cameron, l’attore che lo interpretava, è diventato un ultra conservatore che predica intolleranza e razzismo.

La soluzione non è netta, né universale. Dipende da quanto abbiamo interiorizzato l’arte, da quanto siamo disposti a perdonare, da quanto forte è il legame emotivo con ciò che ci ha fatto crescere (e questo vale anche per i rapporti personali).
Domani cosa faremo?
Perché è facile giudicare col senno di poi. Ma il presente non ci dà il lusso della distanza storica. Il futuro ci costringerà sempre più a prendere posizione mentre le cose accadono, non dopo. La cultura non è una timeline che scorre e un nostro like è già una presa di posizione.

Magari la domanda che da farci è diversa: più che cercare di “separare l’arte dall’artista”, dovremmo capire se siamo in grado di accettarne la complessità.
E forse è proprio questo che ci mette più in discussione: abbiamo scoperto che consumare cultura significa ormai prendere posizione più ampia.
Anche nella POP culture.
POP VIBE: Must be love on the brain



