Qualche giorno fa, durante un rewatch casuale di Sex and the City, mi ha colpito uno dei classici momenti in cui Carrie “Non ha potuto fare a meno di” interrogarsi sulla necessità di incasellare le persone in qualcosa di definito, con confini netti e rassicuranti. La prima volta che lo vidi, probabilmente non ci feci caso. Ma oggi, con uno spirito critico diverso, mi rendo conto di quanto questo bisogno sia diventata ancora più concreto nella nostra vita.

Abbiamo smesso di tollerare le contraddizioni nelle persone. Più che mai, cerchiamo di ridurre ogni individuo a una sola dimensione, eliminando ogni sfaccettatura che possa sembrare in conflitto con il resto.
Puoi essere un leader sicuro di sé, ma non puoi permetterti di essere fragile. Puoi essere l’amico che fa ridere tutti, ma non puoi essere anche quello che, tornato a casa, si sente solo. Puoi essere una madre, ma non puoi anche essere una party girl.
L’industria della musica pop ha sempre sfruttato con queste contraddizioni
Prediamo Britney Spears: è stata costruita come l’eterna ragazza sexy e sorridente, ma quando ha mostrato il lato più vulnerabile della sua personalità, il pubblico ha faticato di riconoscerla.
Billie Eilish ha iniziato la sua carriera con un’estetica oversize e dark per non essere sessualizzata, ma quando ha scelto di esplorare un’immagine più femminile, ha dovuto giustificarsi.


In passato, ci sono state star che hanno cambiato pelle così tante volte da sfuggire a qualsiasi definizione. David Bowie ha giocato con il concetto di identità come fosse un puzzle da smontare e ricostruire.
Ma oggi un artista come lui riuscirebbe a emergere nello stesso modo?
Oppure verrebbe ridotto a una sola delle sue versioni?
Lady Gaga ha provato a fare lo stesso, passando dal personaggio eccessivo di The Fame all’intimità di Joanne, fino al ritorno alla dance con Chromatica, ma ogni transizione è stata accolta con sospetto, come se dovesse giustificarsi per il desiderio di essere più cose contemporaneamente.



Persino Beyoncé, che sembra intoccabile, ha dovuto sdoppiare la propria narrazione con una precisione quasi chirurgica. L’era Sasha Fierce le ha permesso di essere la popstar forte e determinata, separando quella parte di sé dalla vulnerabilità mostrata in Lemonade. Ma perché abbiamo bisogno di questa separazione al punto di creare un alter ego per la parte più aggressiva, mentre la Beyoncé “reale” può restare la moglie tradita che soffre e si rialza?

Abbiamo paura della complessità.
E vogliamo certezze. Vogliamo etichette chiare.
Vogliamo che Lana Del Rey rimanga eternamente malinconica, che Taylor Swift sia la ragazza del pop perfettamente consapevole del suo marketing, che The Weeknd sia il re del dark R&B senza mai spogliarsi della sua estetica notturna. Ogni deviazione ci spiazza.
Non siamo più in grado di vedere le sfumature che ci definiscono. È molto più semplice avere un solo personaggio, la nostra armatura nel mondo, e restare fedeli a quella maschera. La cultura dell’etichetta, del brand personale, ci impone di scegliere un ruolo e attenervici. E così sperimentiamo solo di nascosto, esplorariamo altre parti di noi quando non siamo esposti al giudizio.
Forse per questo siamo inconsciamente attratti da personaggi che riescono a sovvertire le regole del gioco. Quelle che cadono, si reinventano e mostrano più lati di sé, come Miley Cyrus, che è passata dall’essere la principessa Disney a spaccare la sua immagine in mille pezzi, reinventandosi di continuo.

Abbiamo smesso di investire tempo per scoprire le sfumature
Nell’era della gratificazione immediata, tutto deve essere comprensibile in pochi secondi. Vogliamo versioni immediate, semplici da digerire.
Ma le persone non funzionano così.
Come negli album più belli, quelli che al primo ascolto sembrano strani ma che alla fine ci restano addosso, gli esseri umani hanno bisogno di tempo per essere compresi.
Pensiamo a quei dischi che, al primo impatto, ci spiazzano. Non sono immediati, non hanno il singolo radiofonico facile o il ritornello che ci cattura subito. La prima volta che li ascoltiamo, ci sembrano confusi, fuori fuoco, diversi da quello che ci aspettavamo. Ma poi succede qualcosa: iniziamo a cogliere dettagli che prima ci erano sfuggiti, una sfumatura nella voce dell’artista, un giro di basso nascosto sotto la melodia principale, un testo che all’improvviso ci colpisce in modo più profondo.
E improvvisamente, quell’album smette di essere “difficile” e diventa una parte di noi.
Come Ray of Light. Quando uscì nel 1998, era lontano anni luce dalla Madonna che il pubblico conosceva: mistico, elettronico, senza le solite provocazioni esplicite. Alcuni fan storici lo trovarono ostico, ma con il tempo è diventato un classico. Oppure Folklore di Taylor Swift, un album intimo e narrativo, che ha richiesto tempo per essere apprezzato appieno, soprattutto da chi si aspettava un’altra hit immediata.

E così come alcune persone ci colpiscono immediatamente, come una canzone perfetta per la radio, per poi esaurirsi in fretta, altre, invece, hanno bisogno di più ascolti per far emergere le loro sfumature nascoste.
POP vibe: I see the way you're acting like you're somebody else, gets me frustrated



