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La storia di Karla Sofia Gascón è il classico esempio di ascesa fulminea e caduta altrettanto rapida sotto il peso della cancel culture.

Ma ricostruiamo i fatti: Fino a poche settimane fa, l’attrice spagnola sembrava destinata a fare la storia come prima donna transgender a ricevere una nomination all’Oscar. La sua interpretazione in Emilia Pérez le aveva già garantito una pioggia di premi, dai Golden Globe fino alle principali associazioni di critici. Poi, l’affiorare di vecchi tweet a sfondo razzista ha ribaltato completamente la sua situazione, lasciandola isolata e priva del sostegno dello studio che l’aveva portata fino a Hollywood.

Il meccanismo che ha travolto la Gascón è noto: il passato di una persona, spesso riesumato attraverso i social media, diventa un boomerang che mette in discussione l’intera carriera e il valore umano e artistico. In un’epoca in cui l’intrattenimento e la morale pubblica sono intrecciati in modo sempre più inscindibile, il confine tra responsabilità e punizione diventa sottile e pericoloso. Gascón ha scritto quei tweet tra il 2016 e il 2021, molto prima che il suo volto diventasse simbolo della rappresentazione trans nel cinema.

Ma per gli haters, il tempo non conta: l’attrice ha espresso posizioni offensive su Islam, migranti, Cina e perfino sugli Oscar stessi, e questo basta per averla estromessa.

Netflix, che inizialmente aveva investito nella sua campagna per gli Academy Awards, ha rapidamente preso le distanze, interrompendo il supporto economico per la promozione, escludendola da eventi e pubblicità. Gascón ha cancellato il proprio account X e dichiarato di essere vittima della cancel culture, denunciando la mancanza di sostegno persino dalle colleghe di set (Zoe Saldana, anch’essa candidata agli Oscar, ha ammesso che sta elaborando le emozioni).

Ma qui si apre una questione più ampia: è possibile, nella cultura contemporanea, separare l’artista dalla persona? E soprattutto, esiste una scala di gravosità degli errori che permette a qualcuno di redimersi mentre altri vengono ostracizzati per sempre? Il caso di Gascón segue un copione già visto in molte altre occasioni, in cui la scoperta di dichiarazioni problematiche porta all’ostracizzazione pubblica.

Ma la cancel culture è davvero una condanna senza appello,
o la sua applicazione risponde a una logica selettiva?

Negli ultimi anni, Hollywood ha dimostrato di saper chiudere un occhio su figure ben più compromesse: registi accusati di molestie che continuano a lavorare, star cadute in disgrazia che trovano nuove opportunità dopo un adeguato periodo di silenzio.

Facciamo subito qualche esempio di casi in cui certe figure sono rientrare nel sistema dopo periodi di controversie:

  • Mel Gibson – Dopo accuse di antisemitismo e violenza domestica negli anni 2000, è tornato a lavorare con film acclamati come Hacksaw Ridge (2016), per cui ha ricevuto una nomination all’Oscar come miglior regista.
  • Woody Allen – Nonostante le accuse di molestie su sua figlia adottiva Dylan Farrow, ha continuato a lavorare regolarmente.
  • Roman Polanski – Condannato per stupro negli anni ’70, ha continuato a dirigere film acclamati e ha vinto un Oscar per Il Pianista (2002).

La questione, quindi, non è solo se Gascón meriti o meno di essere esclusa dagli Oscar, ma cosa questa dinamica dica dell’industria e della società in generale.

Qual è la lezione da imparare?

L’errore di Gascón è senza redenzione, o c’è spazio per un percorso di responsabilizzazione? E, soprattutto, chi decide chi merita di restare sotto i riflettori e chi invece deve essere rimosso dal discorso pubblico?

La cancel culture è al giorno d’oggi un fenomeno complesso e molto controverso, che riflette le fragilità del nostro sistema globale che non ha ancora trovato un equilibrio tra il rischio di trasformare ogni errore in una sentenza definitiva e la necessità di responsabilizzare chi gestisce una piattaforma che dovrebbe regolamentare nei temi e nei contenuti.  

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