Da mesi osservo con attenzione la carriera di Demi Moore perché credo sia una grande metafora della vita. Per anni è stata una delle attrici più richieste di Hollywood, poi, improvvisamente, è svanita. Non per scelta, ma perché Hollywood aveva deciso così. Negli anni ‘90 aveva tutto: successo, ruoli iconici, milioni al botteghino. Eppure, nonostante Ghost e mille altre performance, non è mai arrivato l’Oscar. Neanche una nomination. Il mondo l’ha guardata brillare, poi l’ha messa da parte, come se il suo tempo fosse scaduto.
E non è forse così che ci sentiamo anche noi? Da giovani, ci affacciamo alla vita con lo stesso entusiasmo con cui Demi Moore calcava i red carpet: pieni di speranza, convinti che il talento e l’impegno ci porteranno esattamente dove sogniamo di arrivare. Abbiamo la sensazione che il mondo funzioni in modo giusto, che ogni fatica avrà il suo riconoscimento, che il lieto fine sia una promessa e non un’illusione.

Poi arriva la seconda parte della storia. La vita adulta. E scopriamo che non c’è nessuna narrazione preordinata, che il successo non è garantito, che le cose non sempre vanno come ci siamo immaginati. Lavoriamo duro, ci sforziamo di fare tutto bene, eppure a volte veniamo messi da parte, ignorati, sostituiti. Guardiamo intorno e vediamo persone che, senza particolari meriti, sembrano vincere la partita. Ci chiediamo dove abbiamo sbagliato, perché nessuno ci ha spiegato che il riscatto non è assicurato, che la nostra storia potrebbe non avere un finale trionfale.
Demi Moore questo l’ha vissuto sulla sua pelle. Dopo il successo, è arrivato il limbo: ruoli minori, un’industria che sembrava averla dimenticata, la percezione di essere stata esclusa dal tavolo delle grandi.
Ma poi, dopo anni di silenzio, è successo qualcosa. A Cannes 2024, The Substance l’ha riportata sotto i riflettori. Standing ovation, riconoscimenti, finalmente la sua rivincita sembrava arrivata. Come se il destino le avesse concesso una seconda possibilità, come se il cerchio si fosse chiuso.

Tuttavia, ieri sera, non é arrivato l’Oscar che tutti (e anche lei) si aspettavano. In un mondo basato sulle logiche del “vissero tutti felici e contenti”, sarebbe stato l’epilogo giusto.
Ed è questo a cui pensavo ora: la vita non è costruita per premiarci con un lieto fine. Non c’è una struttura narrativa che garantisce il successo dopo la fatica, la redenzione dopo la crisi, l’amore dopo il dolore. Eppure, cresciamo con questa idea incisa nella mente. La vita (e Hollywood) ci ha abituati a pensare che la sofferenza serva a qualcosa, che il duro lavoro venga ricompensato, che se resistiamo abbastanza, prima o poi, il grande riconoscimento arriverà.

La verità? Non ci devono proprio niente.
La vita é piú randomica. A volte sei Demi Moore e il tuo film incassa milioni, ma il sistema non ti considera mai abbastanza brava da metterti in gara. A volte lavori sodo, superi ostacoli enormi, eppure il grande premio non arriva. Non c’è un ordine superiore che distribuisce ricompense in base al merito. Possiamo essere brillanti, gentili, determinati, e comunque non ricevere ciò che ci aspettiamo.

Questa è una verità difficile da accettare, perché smonta la narrazione che ci ha cresciuti. Ma forse c’è anche un sollievo in questo. Se non c’è un happy ending predefinito, allora siamo liberi di scrivere la nostra storia senza aspettative imposte. Possiamo smettere di cercare una logica dove non c’è e, invece, concentrarci sul presente, su ciò che ci fa stare bene adesso, senza il peso dell’ “Oscar” che forse non arriverà mai.
Dobbiamo solo restare in piedi abbastanza a lungo, accettare che la vita sia caotica e imprevedibile e che, di conseguenza, tutto puó succedere.
Forse.

POP vibe: Wake up, kids, we've got the dreamers disease



