Di solito, la malinconia arriva solo anni dopo la fine di un’epoca o di una fase, quando possiamo guardare quella foto scattata, stampata e incorniciata, che ne suggella il ricordo.
Eppure, Raf scrisse questo pezzo nel 1989, quando avrebbe potuto ancora galleggiare nella comfort zone del presente e vivere di rendita emotiva. Invece, questa canzone è di una lucidità disarmante nel descrivere la caducità di anni appena “afferrati e già scivolati via”.
Molti versi del brano sembrano piccole premonizioni di ciò che viviamo oggi (“Anni sui libri di scuola e poi che cosa resterà”), ma ciò che mi colpisce ancora oggi è soprattutto la sensazione netta di qualcosa che sta per finire.
“Noi siamo sempre più soli, singole metà” anticipa emotivamente ciò che rimarrà delle sicurezze costruite in quegli anni. È come se il minimalismo, la monocromia e la razionalità asettica degli anni ’90 incombesse già come una spada di Damocle. Nel 1993, Raf descriverà quelle stesse sicurezze come “due reduci”, affidandosi ad un fatalista “se amore, amore vedrai, di un amore vivrai”.
Forse non si trattava di una visione lucida del futuro, ma di una consapevolezza che l’esuberanza, la ricchezza e il caleidoscopio di colori pop degli anni ’80 non sarebbero stati sostenibili a lungo. Come una Big Babol che credevamo potesse gonfiarsi all’infinito incuranti che il punto di rottura fosse sempre dietro l’angolo.
Eppure, andava bene così. L’eccesso era piacevole perché condiviso collettivamente, lontano dal narcisismo egoriferito di oggi. Era normalizzato, prima che questa parola diventasse manifesto di divisione più che di inclusività.
Il vero valore degli anni ’80, ora svuotato della sua importanza, era l’imperfezione.
Un mondo che non aveva bisogno di filtri per raccontare la quotidianità ci restituiva un’idea di libertà accessibile, in cui tutto sembrava possibile: dal sogno Americano al posto fisso “da un milione e mezzo al mese”.
POP vibe: delle nostre voglie e dei nostri jeans che cosa resterà?



