C’è una cosa che non diciamo mai ad alta voce, ma che tutti speriamo nel profondo:
avere una seconda primavera.
Arrivarci vivi, arrivarci integri, arrivarci ancora capaci di dire qualcosa che valga la pena ascoltare.
Una stagione finale che non sia solo un declino, ma una fioritura diversa: più lenta, più dolce, più nostra.
Credo sia questo che ci emoziona così tanto quando vediamo certe donne vivere la propria età non come resa, ma come ritorno.
La loro seconda primavera diventa il nostro sogno segreto: l’idea che un giorno, anche quando saremo più stanchi, più provati, ci sia ancora qualcosa in noi che vibra, che arriva, che trova spazio.
In questi giorni, mentre salutiamo Ornella Vanoni, è questo il pensiero che dentro di me si fa più insistente.
Perché Ornella è stata la dimostrazione più vera di cosa significhi avere una seconda primavera fatta di grazia e disincanto.
Una presenza che non chiedeva niente e che ha trovato ascolto proprio perché non voleva più piacere a nessuno.
La sua voce era un modo di raccontare il tempo senza combatterlo.
Ed è impossibile non desiderare di diventare così: senza artificio, senza paura, senza rumore. E senza rancore.
Il dolore che sentiamo adesso, così netto ma così delicato, ci dovrebbe fa guardare diversamente chi è ancora qui.
E ci tocca così tanto perché capiamo, all’improvviso, che certe persone non ci emozionano allo stesso modo non per mancanza di valore, ma perché non le abbiamo ancora perdute.
E così mi viene naturale pensare a quelle altre donne che, in modo diverso, stanno vivendo la loro seconda primavera sotto i nostri occhi — solo che non le pensiamo così perché sono ancora vive, ancora accessibili, ancora “qui”.
Orietta Berti, per esempio.
Lei non ha mai avuto l’aura sacra di Ornella e non ha mai chiesto di averla.
È stata una presenza più semplice, più umile, come la luce della cucina lasciata accesa di notte per non inciampare.
Eppure, proprio per questo, la sua seconda primavera è stata una carezza.
Non perché fosse moderna o contemporanea, ma perché non ha mai tradito la propria anima.
E il fatto che la sua rinascita sia arrivata proprio attraverso il pop,
le classifiche, i featuring improbabili e sia entrata nelle playlist dei ragazzini che non sapevano nemmeno chi fosse, è la prova che l’autenticità non ha pubblico, ma li attraversa tutti.
L’abbiamo riscoperta come si riscoprono certi odori dell’infanzia: non eleganti, ma veri.
E in un mondo che si trucca anche quando piange, che si fa i selfie ai funerali, Orietta è sempre rimasta senza maschere.
O Iva Zanicchi.
Lei non è una variante: è una frattura.
La discrepanza vivente tra ciò che chiamiamo iconico e ciò che invece resiste nonostante gli errori.
Un personaggio irregolare, spigoloso, pieno di salite e discese, di scelte discutibili, di eccessi, di stonature.
È ironica e scomposta, brillante e contraddittoria, quasi sempre fuori fuoco, ma impossibile da ignorare.
Non ha mai avuto l’abbraccio unanime.
E, a dirla tutta, non si è mai neppure candidata per ottenerlo.
Ha attraversato i decenni come si attraversano i temporali: sbagliando strada, inciampando, gridando, tornando indietro e poi ripresentandosi comunque, come se niente fosse.
Una che resta anche quando non vuoi che resti, anche quando la giudichi, anche quando non sai se ti piace o se ti infastidisce.
È la dimostrazione vivente che ciò che è incoerente, rumoroso, imperfetto e controverso ha una forza di radicamento che non sappiamo spiegarci.
E forse è proprio questo il punto: nei suoi sbagli e nelle sue contraddizioni e riconosciamo le nostre.
Tre Donne, tre Primavere. Tre “Belve” diverse.
Tre modi di ricordarci ciò che temiamo di perdere: la possibilità di avere ancora qualcosa da dare anche quando la giovinezza non ci protegge più.
Noi oggi piangiamo anche questo.
Non il loro successo, non il revival, non la nostalgia.
Ma la consapevolezza che la vecchiaia non deve per forza toglierci la voce.
Che possiamo ancora essere utili, ascoltati, rilevanti per qualcuno.
E allora, mentre questa notte si conclude, mi rendo conto che la seconda primavera non è un privilegio di pochi ma è desiderio di tutti.
È ciò che speriamo per noi stessi, quando saremo più lenti, più stanchi, più sopraffatti.
La loro seconda primavera è un promemoria che forse, un giorno, anche noi potremo fiorire ancora.
Magari male, magari tardi.
Magari ancora.
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