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C’è stato un tempo in cui comprare fisicamente musica era normale.

Anzi, era l’unico modo.

Tipo: se volevi ascoltare Jagged Little Pill, dovevi proprio uscire dalla cameretta, andare in negozio, scegliere tra l’edizione jewel case o quella con lo sticker, e tornare a casa con qualcosa che, se ti cascava per terra, si scheggiava (true story).

Era il 1995 e le cose andavano così.

Un anno scelto a caso ma non troppo perché, a memoria, lo considero l’ultimo in cui la musica si comprava davvero. Prima che Napster, i masterizzatori e l’era digitale trasformassero tutto in file.

Ok, quindi, siamo nel 1995, andiamo in negozio, sfogliamo le novità e torniamo a casa con 35.000 lire in meno e un album in più nella tua stanza.

Oggi la musica non si compra.
Si streamma.
Si salta da una canzone all’altra come su Tinder, senza mai fermarsi.


Ma le copie fisiche, che fine hanno fatto?
Forse non sappiamo più in che negozi le vendono. Ma esistono ancora. Più come oggetto del desiderio, che piattaforma fisica.

L’epoca in cui un album “normale” vendeva 10 milioni di copie

Diamo un po’ di numeri, così, per ricordarci quanto eravamo pazzi.

 

Anche un album come The Score dei Fugees (uscito l’anno dopo, ok) superava i 15 milioni.

Era tutto amplificato. Ma soprattutto, c’era una cosa che oggi è scomparsa: l’attesa.

La gente aspettava l’uscita di un disco.
Faceva la fila fuori dai negozi (io l’ho fatta per Confessions, un giovedi di Novembre davanti alle Messaggerie Musicali e ne vado molto fiero)

 

Comunque, l’uscita di un disco era un evento. E comprare musica era un rito. Una piccola liturgia settimanale, fatta di gesti e emozioni precise.

Aspettavi il martedì (o il venerdì a seconda dei paesi), ma in realtà aspettavi te stesso: la versione di te che avrebbe finalmente avuto quel disco, quella storia, quella colonna sonora da ascoltare in loop fino a odiarla (ma solo un po).

E quel giorno non passavi nemmeno in rassegna gli altri scaffali: puntavi dritto alla parete delle novità.

Lo afferravi. Lo rigiravi tra le mani. E subito sentivi il peso delle aspettative.

Poi veniva il momento più sensuale di tutti: l’apertura.
Il cellophane bastardo che non si strappava mai (e un po’ ci dispiaceva romperlo)
Il libretto interno che profumava di carta lucida e inchiostro.
I testi da decifrare.

 

E infine, momento mistico: i crediti.

Chi ha scritto cosa. Chi ha prodotto. Quale studio di Los Angeles o di Londra l’ha registrato. C’era sempre quel nome ricorrente, quel chitarrista che avevi già visto altrove.
E la bonus track? Era davvero nascosta? Durava 12 minuti? Oppure c’era solo un silenzio lungo e inspiegabile tra la penultima e l’ultima traccia?



Era tutto parte del gioco.

Ma non era un gioco.
Era il tuo modo per dire: questa musica è mia.
 

E poi sì, ovvio: le copie vendute contavano. Perché erano numeri che avevano un peso specifico. C’erano classifiche vere, record veri, successi veri. Senza streaming party, senza bot che ti riproducono il disco alle 3 di notte su repeat.

Oggi se superi le 100.000 copie fisiche, ti mettono nella Hall of Fame

La maggior parte degli album attuali, anche quelli di artisti noti, vende tra le 50.000 e le 300.000 copie fisiche globali.
E già è un miracolo.

Solo alcuni nomi – Taylor, BTS, Harry Styles – riescono a sfondare la soglia del milione.
Ma anche lì, grazie a strategie al limite della manipolazione: 17 versioni diverse, bundle con la maglietta, vinile rosa, vinile giallo, vinile che se lo ascolti al contrario invoca Jennifer Paige.

Ma quindi è tutto marketing? Yes babe, abbastanza.

La verità è che oggi non si compra la musica per ascoltarla.
Si compra per possederla.
Per postarla.
Per metterla in una teca.
Per far sapere che tu c’eri. O forse, che avresti voluto esserci.

Il ritorno del vinile (e il feticismo del fisico)

Il vinile è tornato, non c’è dubbio.
Ma è un ritorno feticista.

Non è la musica che ci manca: è l’oggetto.La ritualità. Il gesto.

Comprare un vinile oggi è un po’ come comprarsi una macchina da scrivere su Ebay per mandare una tweet: non ti serve, ma ti fa sentire meglio.
Ti fa sentire connesso al presente e consapevole del passato.

 

Il vero punto non è quanto vende un album. Ma cosa rappresentano.

Oggi un disco fisico è un simbolo. Una capsula emotiva.
Lo compri per ricordare chi eri, più che per scoprire chi sei.

E allora forse la domanda giusta non è più “Quante copie ha venduto un album?” ma: “Quante emozioni riesce a racchiudere?”.

E se la risposta è “Abbastanza da farmi uscire dalla cameretta, prendere la carta di credito e andare a compre senza 20 milioni di copie.

 

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