Anche dire “no” può essere un atto di ribellione in un mondo in cui la produttività è diventata l’ossessione collettiva.
Non è un capriccio, non è ingratitudine, ma un gesto profondamente umano. E con un risvolto sociale importante. E’ questo che ha dimostrato Olly con la sua decisione di fermarsi e non partecipare ad Eurovision: dietro a quello che potrebbe sembrare un passo indietro si nasconde un rifiuto di guidare la macchina della performance ad oltranza.
Viviamo in un’epoca in cui il valore di una persona viene misurato dai numeri: follower, engagement, ore fatturate, progetti consegnati. Se la produttività è una religione, la pausa diventa un peccato mortale.

Se non stai correndo, sei fuori dai giochi. Se non sei visibile, non esisti
Quando una figura pubblica (e giovanissima) come Olly decide di direi “no” ad una opportunità verso la quale ci si aspetta esattamente l’opposto, sta raccontando al mondo che un’alternativa esiste. Non è solo una scelta individuale, è un messaggio molto più forte: fermarsi non è fallire. Anzi, è avere il coraggio di sfidare un sistema che premia l’iperattività e punisce la riflessione.
E questo messaggio è ancora più importante se consideriamo il paradosso in cui viviamo: da una parte ci viene detto di prenderci cura della nostra salute mentale, dall’altra, quello stesso sistema la erode. Il burnout non è più un’eccezione ma una tappa quasi obbligata del percorso per chi lavora in ambiti dove l’essere “on” è la norma (Angelina Mango docet).
In un’epoca in cui la presenza continua è un diktat, il “no” di Olly diventa il manifesto che la qualità vince sulla quantità e che la creatività ha bisogno di respiro.
Questo mi porta ad un’altra riflessione: dato che siamo stati educati a credere che ogni opportunità vada colta al volo, che ogni treno perso sia una sconfitta, riusciremo mai a dare valore all’attesa del treno che sentiamo giusto per noi?
Anche solo per riprendere il controllo della nostra vita.
POP vibe: I don't wanna be you, I don't wanna be you, anymore



