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Un tempo, i direttori creativi rappresentavano delle istituzioni: decade dopo decade, il loro nome si sedimentava nell’immaginario collettivo, definendo l’identità di un brand in maniera coerente. Karl Lagerfeld per Chanel, Giorgio Armani per il suo stesso impero, Tom Ford per Gucci negli anni ’90: personaggi che hanno avuto il tempo e lo spazio per costruire una visione, trasformando marchi in icone culturali.

Oggi, invece, il turnover tra CEO e direttori creativi nel fashion system rispecchia l’approccio bulimico della società contemporanea, rappresentata dallo swipe di Tinder e dalla filosofia di “The next best thing”, quell’opportunità migliore che possiamo sempre trovare rispetto a ciò che abbiamo già.

L’idea che possa esserci sempre qualcosa di migliore all’orizzonte – un talento più giovane, una strategia più innovativa, un prodotto più virale – ha reso il settore della moda una continua roulette russa. I direttori creativi vengono sostituiti nel giro di poche stagioni, senza neppure il tempo di costruire un’identità chiara per un brand. Il caso di Alessandro Michele, che ha lasciato Gucci dopo aver rivoluzionato l’estetica della maison è solo il primo esempio di quella che è diventata una tendenza del mercato.

Come nello swipe acritico delle app di dating, il focus non è più sull’investire nel presente e costruire qualcosa di concreto, ma sulla costante ricerca di un’alternativa più interessante. Se un tempo il valore della moda risiedeva nella costruzione di un immaginario e di un linguaggio distintivo, oggi l’industria si è trasformata in un sistema sempre più privo di profondità, proprio come le nostre relazioni svuotate dalla velocità dei social.

La labilità delle relazioni contemporanee è un fenomeno che si riflette non solo nei legami affettivi ma anche, paradossalmente, nel nostro legame con un brand. Viviamo in un’epoca di gratificazione immediata, in cui le esperienze (e i sentimenti) sono intercambiabili. Le persone faticano ad affezionarsi a qualcosa che rischia di svanire nel giro di pochi istanti, e questo senso di precarietà si estende a ogni aspetto della vita: dalla moda alle amicizie, dal lavoro alle relazioni.

Allo stesso modo, il cliente odierno si muove in uno scenario in cui tutto è a portata di mano ma nulla è realmente duraturo: l’abitudine a scorrere tra opportunità si è tradotta in un’incapacità di costruire connessioni durature nel tempo e questo meccanismo si rispecchia, inequivocabilmente, anche sulla moda: il legame emotivo con un brand, un tempo costruito attraverso esperienze, qualità e storytelling, oggi viene sacrificato in favore della necessità di novità costanti.

Ma cosa succede quando il bisogno di innovazione continua si trasforma in mancanza di coinvolgimento? La moda, da sempre specchio della società, ora riflette un’epoca in cui il presente non è più abbastanza e il futuro è sempre più incerto, in una corsa affannata verso la ricerca di una perfezione che, naturalmente, non arriverà mai.

Proprio come accade nella nostra vita.

Così come spesso le relazioni digitali terminano ancora prima di iniziare, anche l’identità dei brand sta diventando effimera, lasciando noi clienti in uno stato di costante ricerca e insoddisfazione.

Proprio come accade nella nostra vita.

POP vibe: They love you when you're on all the covers. When you're not, then they love another - Marylin Manson (1999)

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