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Quando ero piccolo, la domenica mattina, prima di andare a fare il chierichetto, scappavo di nascosto al bar del paese per spendere la mia paghetta settimanale con questo gioco. Una partita costava 200 lire e dovevi farle fruttare. Spesso c’era il gruppo dei bulletti più grandi che monopolizzavano la situazione e dovevi farti largo per giocare. Ma quando non trovavo nessuno… potevo fare il campione. Finché non arrivava qualcuno che mi tirava via per un orecchio.

Credo che se, ai tempi, mi avessero detto che un giorno sarebbe stato possibile giocare a casa, avrei considerato quell’idea come la cosa più vicina al Paradiso.

Ai tempi, il bar era una giungla sociale.

Non era solo una questione di avere i soldi per giocare, ma di guadagnarti il tuo spazio, di aspettare il momento giusto per infilarti davanti allo schermo prima che qualcuno più grande, più veloce o più spavaldo, te lo scippasse sotto il naso. Erano poche occasioni, e dovevi farle contare.

Perché il vero lusso, all’epoca, non era possedere qualcosa, ma avere accesso a un momento tutto tuo, senza ansia, senza interruzioni, senza la sensazione che qualcun altro fosse sempre un passo avanti.

Da bambini, il mondo è un continuo confronto tra quello che possiamo fare e quello che ci è precluso. È una lotta silenziosa, solitaria, in cui impariamo che le occasioni non sono sempre giuste per tutti. Alcuni nascono con il gettone già in tasca, altri devono guadagnarselo, aspettare il loro turno, trovare un varco tra le spalle larghe degli altri per infilarsi nel gioco. Ed è proprio questo che ci segna: il bisogno di essere visti, di sentire che anche noi abbiamo diritto al nostro momento.

Magari è per questo che, crescendo, mi sono ritrovato a inseguire quei piccoli debiti emotivi che il tempo ha lasciato aperti. Ho comprato cose che non potevo permettermi, ho vissuto esperienze che sembravano precluse, ho costruito un piccolo rifugio dove finalmente ho potuto essere i padrone del mio tempo. Non è solo nostalgia. È una forma di cura.

E così, oggi, quando accendo questa Mia console e vedo quei pixel, c’è qualcosa che si allinea dentro di me. Il bambino che guardava gli altri giocare e l’adulto che ora può concedersi una partita senza nessuno che gliela porti via. È un piccolo cerchio che si chiude. E non si tratta solo di rivincita, ma di riconciliazione: con il tempo, con la vita, con quella parte di me che ha passato tanto tempo a sperare che il suo turno arrivasse.

Perché alla fine, più che recuperare ciò che mi è mancato, voglio solo sentirmi a casa, dentro la mia storia, con la certezza che nessuno mi tirerà più per un orecchio via da Bubble Bobble. E forse, quella sì, è la cosa più vicina al Paradiso.